Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, Cesare Pavese

20.05.2025

Terra rossa terra nera,


tu vieni dal mare,


dal verde riarso,


dove sono parole


antiche e fatica sanguigna


e gerani tra i sassi –


non sai quanto porti


di mare parole e fatica,


tu ricca come un ricordo,


come la brulla campagna,


tu dura e dolcissima


parola, antica per sangue


raccolto negli occhi;


giovane, come un frutto


che è ricordo di stagione –


il tuo fiato riposa


sotto il cielo d’agosto,


le olive del tuo sguardo


addolciscono il mare,


e tu vivi e rivivi


senza stupire, certa


come la terra, buia


come la terra, frantoio


di stagioni e di sogni


che alla luna si scopre


antichissimo, come


le mani di tua madre,


la conca del braciere.




Tu sei come una terra


che nessuno ha mai detto.


Tu non attendi nulla


se non la parola


che sgorgherà dal fondo


come un frutto tra i rami.


C’è un vento che ti giunge.


Cose secche e rimorte


t’ingombrano e vanno nel vento.


Membra e parole antiche.


Tu tremi nell’estate.




Anche tu sei collina


e sentiero di sassi


e gioco nei canneti,


e conosci la vigna


che di notte tace.


Tu non dici parole.


C’è una terra che tace


e non è terra tua.


C’è un silenzio che dura


sulle piante e sui colli.


Ci son acque e campagne.


Sei un chiuso silenzio


che non cede, sei labbra


e occhi bui. Sei la vigna.


È una terra che attende


e non dice parola.


Sono passati giorni


sotto cieli ardenti.


Tu hai giocato alle nubi.


È una terra cattiva –


la tua fronte lo sa.


Anche questo è la vigna.




Ritroverai le nubi


e il canneto, e le voci


come un’ombra di luna.


Ritroverai parole


oltre la vita breve


e notturna dei giochi,


oltre l’infanzia accesa.


Sarà dolce tacere.


Sei la terra e la vigna.


Un acceso silenzio


brucerà la campagna


come i falò la sera.




Hai viso di pietra scolpita,


sangue di terra dura,


sei venuta dal mare.


Tutto accogli e scruti


e respingi da te


come il mare. Nel cuore


hai silenzio, hai parole


inghiottite. Sei buia.


Per te l’alba è silenzio.


E sei come le voci


della terra – l’urto


della secchia nel pozzo,


la canzone del fuoco,


il tonfo della mela;


le parole rassegnate


e cupe sulle soglie,


il grido del bimbo – le cose


che non passano mai.


Tu non muti. Sei buia.


Sei la cantina chiusa,


dal battuto di terra,


dov’è entrato una volta




ch’era scalzo il bambino,


e ci ripensa sempre.


Sei la camera buia


cui si ripensa sempre,


come al cortile antico


dove s’apriva l’alba.




Tu non sai le colline


dove si è sparso il sangue.


Tutti quanti fuggimmo


tutti quanti gettammo


l’arma e il nome. Una donna


ci guardava fuggire.


Uno solo di noi


si fermò a pugno chiuso,


vide il cielo vuoto,


chinò il capo e morì


sotto il muro, tacendo.


Ora è un cencio di sangue


e il suo nome. Una donna


ci aspetta alle colline.




Di salmastro e di terra


è il tuo sguardo. Un giorno


hai stillato di mare.


Ci sono state piante


al tuo fianco, calde,


sanno ancora di te.


L’agave e l’oleandro.


Tutto chiudi negli occhi.


Di salmastro e di terra


hai le vene, il fiato.


Bava di vento caldo,


ombre di solleone –


tutto chiudi in te.


Sei la voce roca


della campagna, il grido


della quaglia nascosta,


il tepore del sasso.


La campagna è fatica,


la campagna è dolore.


Con la notte il gesto


del contadino tace.


Sei la grande fatica


e la notte che sazia.




Come la roccia e l’erba,


come terra, sei chiusa;


ti sbatti contro il mare.


La parola non c’è


che ti può possedere


o fermare. Cogli


come la terra gli urti,


e ne fai vita, fiato


che carezza, silenzio.


Sei riarsa come il mare,


come un frutto di scoglio,


e non dici parole


e nessuno ti parla.




Sempre vieni dal mare


e ne hai la voce roca,


sempre hai occhi segreti


d’acqua viva tra i rovi,


e fronte bassa, come


cielo basso di nubi.


Ogni volta rivivi


come una cosa antica


e selvaggia, che il cuore


già sapeva e si serra.


Ogni volta è uno strappo,


ogni volta è la morte.


Noi sempre combattemmo.


Chi si risolve all’urto


ha gustato la morte


e la porta nel sangue.


Come buoni nemici


che non s’odiano più


noi abbiamo una stessa


voce, una stessa pena


e viviamo affrontati


sotto povero cielo.


Tra noi insidie,


non inutili cose –


combatteremo sempre.


Combatteremo ancora,


combatteremo sempre,


perché cerchiamo il sonno


della morte affiancati,


e abbiamo voce roca


fronte bassa e selvaggia


e un identico cielo.


Fummo fatti per questo.


Se tu od io cede all’urto,


segue una notte lunga


che non è pace o tregua


e non è morte vera.


Tu non sei più. Le braccia


si dibattono invano.


Fin che ci trema il cuore


Hanno detto un tuo nome.


Ricomincia la morte.


Cosa ignota e selvaggia


sei rinata dal mare.




E allora noi vili


che amavamo la sera


bisbigliante, le case,


i sentieri sul fiume,


le luci rosse e sporche


di quei luoghi, il dolore


addolcito e taciuto –


noi strappammo le mani


dalla viva catena


e tacemmo, ma il cuore


ci sussultò di sangue,


e non fu più dolcezza,


non fu più abbandonarsi


al sentiero sul fiume –


non più servi, sapemmo


di essere soli e vivi.




Sei la terra e sei la morte.


La tua stagione è il buio


e il silenzio. Non vive


cosa che più di te


sia remota dall’alba.


Quando sembri destarti


sei soltanto dolore,


l’hai negli occhi e nel sangue


ma tu non senti. Vivi


come vive una pietra,


come la terra dura.


E ti vestono sogni


movimenti singulti


che tu ignori. Il dolore


come l’acqua di un lago


trepida e ti circonda.


Sono cerchi sull’acqua.


Tu li lasci svanire.


Sei la terra e la morte.

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