L'uomo senza volto 2, Kevin Nacar

14.05.2025

CAPITOLO 1:


Era il 14 febbraio 2017. A Springfield, il mercatino di San Valentino riempiva la piazza di bancarelle addobbate con cuori di carta, fiori e scatole di cioccolatini. L'aria era satura del profumo di rose e zucchero filato, mentre una leggera brezza invernale scivolava tra le strade della città.


Tra la folla c'era il signor Malik, un uomo sulla cinquantina, dall'aspetto curato, con un cappotto color cammello e una sciarpa scura avvolta con cura attorno al collo. Accanto a lui, sua moglie, Anna, stringeva una tazza di caffè bollente tra le mani guantate. Era un giorno speciale per loro: da oltre vent'anni, il 14 febbraio era un'occasione per ricordarsi quanto si amavano, per festeggiare il loro legame con piccoli gesti di affetto.


Dopo aver girato per le bancarelle, i due si fermarono in un bar d'angolo per un aperitivo. Il locale era piccolo ma accogliente, con luci soffuse e musica jazz in sottofondo. Malik stava mescolando il suo Negroni con un bastoncino di legno quando il suo telefono squillò all'improvviso.


«Pronto? Chi è?» chiese con voce ferma.


Dall'altro capo della linea, solo silenzio. Un silenzio assordante, denso, quasi lugubre. La sua stessa voce sembrava risuonare senza trovare risposta. Restò in ascolto per qualche secondo, poi riattaccò con un'alzata di spalle.


«Chi era?» chiese Anna, sorseggiando il suo drink.


«Nessuno, sarà stato un numero sbagliato.»


Non ci pensarono più e, una volta finito l'aperitivo, uscirono dal bar. Il freddo era più pungente ora, ma i due si scaldavano a vicenda, camminando vicini. Il cielo era un mosaico di rosa e arancio, il sole ormai una striscia rossa sull'orizzonte.


Mentre passeggiavano per Springfield, gli occhi di Malik caddero su una vetrina polverosa. Era un vecchio negozio di restauro, un'attività a conduzione familiare che non sembrava molto frequentata. La luce al neon sopra l'ingresso tremolava in modo irregolare, gettando un'ombra intermittente sulla strada.


Fu allora che notarono qualcosa di insolito.


Dietro il vetro sporco, proprio al centro della stanza semibuia, c'era un sacco nero della spazzatura. Ma non era un semplice sacco. Aveva una forma precisa, inquietante. La forma di un corpo.


Malik e Anna si scambiarono uno sguardo. Il cuore di Anna accelerò, mentre Malik si avvicinò di più alla vetrina, cercando di scrutare meglio. Il sacco giaceva in posizione prona, con le estremità leggermente rialzate, come se al suo interno ci fosse qualcosa di rigido... qualcosa di morto.


Malik bussò contro il vetro con le nocche. Un suono sordo riecheggiò nel silenzio della strada. Nessuna risposta. Provò di nuovo, con più forza. Nulla. Solo il ronzio sommesso della luce al neon e il battito accelerato del suo cuore.


«C'è qualcuno lì dentro?» chiese, senza ottenere risposta.


Anna gli afferrò il braccio. «Forse dovremmo chiamare qualcuno...»


Lui non attese oltre. Estrasse il telefono e compose il numero dello sceriffo. Il suono della chiamata risuonò nell'aria ferma della sera.


«Sceriffo Carter, chi parla?»


«Sono Malik... sono su Main Street, davanti al negozio di restauro. Credo... credo di aver trovato qualcosa. Un sacco, ma sembra un corpo.»


Un breve silenzio, poi la voce dell'ufficiale si fece più seria. «Non toccate nulla. Arrivo subito.»


Malik chiuse la chiamata e si voltò verso Anna. I suoi occhi erano tesi. Sentiva che qualcosa in quella sera, così romantica e tranquilla fino a pochi minuti prima, si era incrinato. E che quello che stavano per scoprire avrebbe cambiato tutto.


Il rumore di una sirena in lontananza ruppe l'aria fredda di Springfield.


CAPITOLO 2: 


Le sirene squarciarono il silenzio della sera, avvicinandosi in un crescendo stridente che fece rabbrividire Malik e Anna. Due volanti dello sceriffo arrivarono a tutta velocità, fermandosi con un sobbalzo davanti al negozio di restauro. Dai veicoli scesero quattro agenti, le loro sagome nette sotto i lampeggianti blu e rossi che danzavano sulle vetrine dei negozi chiusi.


A guidarli c'era l'ufficiale Carter, un uomo sulla quarantina, dal volto scavato e lo sguardo tagliente, seguito dallo sceriffo Jack Smith, un veterano della polizia locale, alto e robusto, con i capelli brizzolati e un'aria che non ammetteva sciocchezze. Dietro di loro, due giovani agenti sulla ventina, che sembravano trattenere il fiato mentre stringevano le torce e le pistole.


Malik indicò la vetrina con un gesto secco. «È lì dentro.»


Gli agenti si scambiarono un'occhiata e, senza perdere tempo, Carter estrasse un piede di porco dalla cintura e si avvicinò alla porta. Fece leva sulla serratura, che cedette con uno schiocco metallico. L'uscio si spalancò con un cigolio sinistro.


L'interno del negozio era avvolto dall'oscurità. Il fascio delle torce scivolò sulle pareti coperte di polvere, illuminando scaffali con scatoloni impolverati, manichini privi di testa e vecchi attrezzi da lavoro. Ragnatele penzolavano dagli angoli, ondeggiando piano al passaggio degli agenti.


Sembrava tutto normale.


Tranne una cosa.


Al centro della stanza, illuminato da un cono di luce tremolante, giaceva il sacco nero della spazzatura.


Carter e Jack si avvicinarono con cautela, le mani sulle fondine. L'aria sembrava essersi fatta più densa, pesante, quasi irrespirabile. Il sacco era immobile, ma la sua forma non lasciava dubbi.


Jack lo sfiorò con la punta della pistola. Il materiale plastico si increspò leggermente, ma non ci fu nessun movimento. Nessun suono.


Gli agenti si scambiarono uno sguardo. Poi Carter si chinò, afferrò un lembo del sacco e lo aprì con un gesto deciso.


L'odore li investì come un pugno nello stomaco. Un fetore nauseabondo, marcio, umido.


Il fascio di luce rivelò l'orrore.


Il corpo all'interno era martoriato da ferite profonde, simili a frustate. Dalle piaghe aperte fuoriuscivano vermi e blatte, che si contorcevano tra le carni in decomposizione. Il volto era irriconoscibile, il cranio spaccato in più punti. Ma ciò che li fece davvero trasalire fu la bocca.


Era divisa a metà. Letteralmente squarciata, come se qualcuno l'avesse aperta con una lama affilata.


E la lingua...


La lingua non era al suo posto.


Jack la trovò infilata nella tasca posteriore destra dei jeans della vittima.


Uno degli agenti più giovani si voltò di scatto, portandosi una mano alla bocca per trattenere il vomito.


«Dannazione...» mormorò Carter, serrando la mascella.


Dopo ore di analisi e un'attenta autopsia, l'identità della vittima fu confermata: si trattava di Antony Long, un uomo sulla cinquantina che lavorava in quel negozio già da qualche mese.


Ma c'era qualcosa di strano.


Il negozio risultava chiuso da altrettanto tempo.


Una coincidenza troppo perfetta.


Era come se la risposta fosse lì, evidente, davanti ai loro occhi.


Ma Carter sapeva che non poteva essere così semplice.


«Troppo facile...» sussurrò tra sé, mentre osservava il cadavere con occhi gelidi.


CAPITOLO 3:


La sera avvolgeva la casa del signor Malik e di sua moglie Anna in un silenzio ovattato. Il tepore del vapore si mescolava all’aroma delle spezie che bollivano sul fornello, creando un’atmosfera che avrebbe dovuto essere tranquilla, familiare. Ma qualcosa nell’aria era strano.


Una tensione invisibile aleggiava nelle stanze, insinuandosi nelle pareti, nel battito regolare dell’orologio da cucina, nel lieve ticchettio delle gocce d’acqua che cadevano dal rubinetto.


Anna era intenta a tagliare delle verdure sul vecchio tagliere di legno, concentrata sul suono ritmico della lama che affondava nella polpa croccante. Il coltello scorreva con precisione, ma un brivido inspiegabile le percorse la schiena.


Dietro di lei, l’unico a percepire l’imminente pericolo fu Bob, il loro piccolo Jack Russell. Il cagnolino smise improvvisamente di trotterellare attorno alla cucina, rizzò le orecchie e iniziò a ringhiare verso la finestra.


Poi, accadde.


Un sasso colpì con violenza il vetro della cucina, frantumandolo in una pioggia di schegge. Il rumore esplose nell’aria come un colpo di pistola, spezzando il fragile equilibrio della casa.


Anna lasciò cadere il coltello con un tonfo sordo e si voltò di scatto, gli occhi spalancati dal terrore. Il cuore le martellava nel petto.


«Amore, corri! Muoviti!» gridò con voce spezzata dall’ansia.


Nel bagno, Malik sentì l’urlo della moglie sopra il sibilo dell’acqua. Sobbalzò, chiuse di scatto il rubinetto e si avvolse l’accappatoio in fretta. Il pavimento della doccia era ancora caldo sotto i suoi piedi nudi mentre si affrettava verso la porta.


Ma quando cercò di aprirla…


Non si mosse.


La maniglia girava a vuoto.


Bloccata.


Qualcuno—o qualcosa—aveva chiuso la porta dall’esterno.


Un gelo improvviso gli percorse la schiena. Non poteva essere un caso. Non poteva essere solo il sasso.


«Anna! Apri la porta!» urlò, battendo i pugni contro il legno con crescente disperazione.


Dall’altra parte, Anna si precipitò verso il bagno. Con mani tremanti afferrò la maniglia e, con un colpo deciso, riuscì a liberarlo. Malik uscì di corsa, il petto ansimante, gli occhi spalancati.


Si ritrovarono entrambi nel salotto, a pochi passi da quel dannato sasso che ora giaceva tra i frammenti di vetro sul pavimento.


Malik sollevò una mano, facendo segno ad Anna di arretrare. «Stai indietro.»


Il respiro di Anna era irregolare, il suo sguardo fisso sulla pietra. Bob, accanto a loro, continuava a ringhiare sommessamente.


Malik fece un passo avanti, il cuore che gli batteva nelle tempie.


Si chinò lentamente e raccolse il sasso. A prima vista, sembrava normale. Ruvido, freddo.


Ma quando lo girò, il sangue gli si gelò nelle vene.


C’era una scritta incisa sul fondo, lettere nere e scarne che sembravano graffiate nella superficie della pietra:


"Guardatevi alle spalle."


Sotto, una firma: U. S. V.


Malik sentì un brivido percorrergli la schiena.


E proprio in quell’istante, Anna fece un passo indietro…


E sussurrò con voce tremante:


«Malik… c’è qualcuno dietro di noi.»


CAPITOLO 4: L'UOMO MISTERIOSO:


L'uomo afferra Anna da dietro.

La stretta dell'uomo intorno al collo di Anna era salda, il suo respiro caldo e minaccioso sulla pelle della donna. La lama di un coltello luccicava nell'ombra, premuta contro la sua gola.


«Se ti muovi, giuro che muore tua moglie.»


La voce era bassa, priva di esitazioni. Un sussurro che portava con sé la promessa della morte.


Malik si immobilizzò. Il cuore gli batteva così forte che temeva potesse esplodergli nel petto. Le mani tremavano, il respiro era irregolare. Non poteva perdere Anna. Non così. Non quella notte.


Ma poi, un'idea.


Doveva agire in fretta.


Con un movimento improvviso, si voltò e corse verso il bagno. L’uomo alle sue spalle imprecò, ma non fece in tempo a fermarlo. Malik si chiuse dentro, facendo scattare la serratura con un clic secco.


Si attaccò al telefono con mani sudate, le dita che scivolavano sullo schermo mentre componeva il numero dello sceriffo.


Un segnale. Poi un altro.


Ma prima che potesse parlar


Cascò il buio.


L’intera casa piombò nell’oscurità.


Un silenzio pesante calò come una coltre soffocante.


Il suono del suo respiro era l’unica cosa che riusciva a sentire, insieme al battito martellante del suo cuore.


Deglutì a fatica. Poi, con voce tremante, sussurrò:


«Anna… amore, stai bene? Ti prego, dimmi che stai bene…»


Silenzio.


«Anna?»


Ancora nulla.


Quel silenzio era peggiore di qualsiasi urlo.


Passarono secondi che sembravano infiniti. Poi, in lontananza, un suono lontano, ovattato… sirene.


Lampeggianti rossi e blu si riflettevano sulle pareti buie del bagno.


Erano salvi.

O forse no.


Malik prese un respiro profondo. Si voltò verso la porta, le mani che ancora tremavano. Girò lentamente la chiave nella serratura.


Crack.


La maniglia scese. La porta si aprì con un cigolio.


L’oscurità del corridoio lo accolse come un abbraccio sinistro, illuminata appena dalle fioche luci d’emergenza.


Fece un passo avanti. Poi un altro.


Ogni suo movimento era lento, controllato. L’aria era densa, carica di un odore ferroso, pungente.


Fu allora che lo sentì.


Sotto ai piedi, qualcosa lo ostacolò. Qualcosa di morbido, immobile.


Il cuore gli si fermò nel petto.


«Che diavolo…?» pensò, mentre il panico iniziava a montargli dentro.


Con un gesto rapido, accese la torcia del telefono e puntò il fascio di luce verso il pavimento.


Il respiro gli si bloccò in gola.


L’ostacolo… era Anna.


Giaceva lì, senza muoversi, il corpo abbandonato come una mela caduta dall’albero.


Il telefono gli scivolò quasi dalle mani.


«Anna…?» sussurrò, la voce incrinata dalla paura.


Poi: Toc, toc.


Un colpo secco alla porta.


«Sceriffo di Springfield! C’è qualcuno in casa?»


Malik sobbalzò. Si riscosse. Corse verso la porta con il cuore in gola e la spalancò di scatto.


«Vi prego, fate qualcosa! Vi prego!»


Gli agenti lo guardarono con sguardi tesi. Lo sceriffo Jack Smith fece un cenno ai paramedici, che si precipitarono dentro con barella e attrezzature mediche.


Anna venne sollevata con delicatezza e trasportata via, il suo volto pallido risaltava sotto le luci intermittenti dell’ambulanza.


Malik la guardò allontanarsi, la mente  era annebbiata dal terrore.


Poi sentì la voce dello sceriffo accanto a lui.


«Signor Malik, dobbiamo parlare.»


L’interrogatorio era appena iniziato.


CAPITOLO 4:


Lo sceriffo Carter scrutava Malik con sguardo fermo, le braccia incrociate sul petto, il taccuino già pronto per annotare ogni dettaglio. Il suono lontano delle sirene svaniva nell'aria, lasciando spazio a un silenzio carico di tensione.


«Bene, signor Malik, cosa ha da dirmi su quello che è appena successo?» chiese Carter, la voce grave e decisa.


Malik deglutì a fatica. Le mani ancora tremanti, gli occhi lucidi e persi nel vuoto.


«Non… non so,» balbettò. «È successo tutto così in fretta… Io ero in bagno, mi stavo lavando. Anna stava cucinando. Poi… poi quel sasso… è entrato dalla finestra…»


La sua voce si spezzò nell’ultimo respiro, come se non riuscisse ancora a credere a ciò che aveva vissuto.


Lo sceriffo Carter rimase impassibile. «Certo. E poi cos’è successo con quell’uomo?»


Malik si passò una mano tra i capelli bagnati, cercando di riordinare i pensieri.


«È entrato… era vestito di nero. Ha preso Anna. Io… io sono corso in bagno per chiamarvi, ma poi, quando sono uscito… lei… lei era lì, a terra.»


Un silenzio denso si insinuò tra loro, rotto solo dal fruscio del taccuino dello sceriffo che girava una pagina.


«Mh…» Carter si schiarì la gola. «Saprebbe descrivere quell’uomo?»


Malik sollevò lentamente lo sguardo su di lui.


«No.»


Carter corrugò la fronte. «In che senso, no?»


Malik si inumidì le labbra, il respiro più affannato.


«Perché… quell’uomo… non aveva un volto.»


Le parole rimasero sospese nell’aria come un’eco sinistro.


Lo sceriffo Smith, fino a quel momento rimasto in silenzio accanto a Carter, alzò lo sguardo di scatto.


«Come sarebbe a dire, non aveva un volto?»


«Era… completamente nero,» spiegò Malik, la voce appena un soffio. «Vestiti neri. Mani nere. Faccia nera. Ma non c’era niente… niente… niente sotto il cappuccio.»


Lo sceriffo Carter inclinò leggermente la testa.


«Sta dicendo che non aveva un passamontagna?»


«No.» Malik scosse il capo con fermezza. «Era… era come se non avesse una faccia.»


Un brivido percorse la stanza.


Per la prima volta, Carter abbassò il taccuino e si voltò verso Smith con un’espressione scettica. Gli bastò uno sguardo per capire che entrambi stavano pensando la stessa cosa.


Non aveva un volto?


Era assurdo.


Era impossibile.


Eppure, Malik lo stava dicendo con un terrore così autentico da far venire la pelle d’oca.


Carter inspirò a fondo, poi annuì lentamente.


«Ci scusi un attimo, dobbiamo parlare,» disse, facendo cenno a Malik di aspettare.


Si allontanarono di qualche passo, parlottando tra loro sottovoce.


«Jack, questa storia non ha senso.»


«Lo so.»


«Un uomo senza volto? Mai sentita una roba simile.»


«Nemmeno io. Ma guarda Malik… non sembra un bugiardo.»


«E se lo fosse?»


Smith sospirò, incrociando le braccia. «Abbiamo un'aggressione, una donna in fin di vita e nessun'altra testimonianza. Se davvero quell’uomo era qui… dov’è finito?»


Carter rifletté un momento, poi fece un cenno di assenso.


Si voltarono entrambi verso Malik.


«Abbiamo parlato,» disse Carter, con tono professionale. «Faremo delle ricerche.»


Una pausa.


Poi, la sentenza.


«Ma per ora… lei è il primo sospettato della lista.»


CAPITOLO 5:


La pioggia scendeva incessante, trasformando Springfield in un dedalo di strade lucide e deserte, in cui l’eco lontano di qualche tuono sembrava rimbalzare tra i palazzi spenti. Malik stringeva forte il volante, fissando l’asfalto illuminato dai fari della sua auto. Il cuore gli batteva nel petto con un ritmo irregolare, accelerato dalla tensione, dalla paura e dal bisogno disperato di rivedere sua moglie.


Anna.


Il suo nome gli echeggiava nella mente come un mantra, un’ancora a cui aggrapparsi in quell’incubo che sembrava non avere fine. Dopo tutto quello che era successo, dopo quell’uomo senza volto, il sasso con il messaggio inquietante, le sirene, il sangue… aveva bisogno di vederla, di sapere che stava bene, che era ancora viva.


La strada davanti a lui era quasi vuota, tranne per qualche lampione tremolante e le sagome spettrali degli alberi piegati dal vento. Poi, all’improvviso, la frenata.


Un albero era crollato sulla carreggiata, un groviglio di rami e tronchi fradici di pioggia. Malik serrò la mascella. Dannazione. Proprio adesso, proprio quando ogni minuto sembrava pesare più di un macigno.


Sospirò, scosse la testa e afferrò il telefono. Digitò rapidamente il numero dei vigili del fuoco, aspettando che qualcuno rispondesse.


«Caserma dei vigili del fuoco di Springfield.» La voce dall’altro capo era bassa, tremolante, quasi stanca.


«Buonasera, c'è un albero caduto in mezzo alla strada, al chilometro 15 della Hospital High Street. Potete mandare qualcuno?»


Ci fu una pausa. Un silenzio troppo lungo per una normale chiamata d’emergenza.


Poi, la risposta.


«Ricevuto. Invieremo subito una squadra.»


Click.


La chiamata si interruppe bruscamente.


Malik fissò il telefono per qualche istante, il sopracciglio leggermente aggrottato. C’era qualcosa di strano nella voce dell’operatore, una sorta di esitazione, quasi come se… no. Era solo suggestione.


Il tempo passava lento. La pioggia martellava il tetto dell’auto con più violenza, il vento scuoteva gli alberi ai lati della strada, facendoli sembrare figure contorte nel buio della notte. Poi, d’un tratto, un bagliore dietro di lui.


Le sirene.


Le luci rosse e blu si riflettevano nello specchietto retrovisore, danzando sulla superficie bagnata della strada. Malik si lasciò andare a un sospiro di sollievo. Finalmente.


I vigili del fuoco arrivarono, lavorarono in fretta, e dopo pochi minuti la strada fu di nuovo sgombra. Malik non perse altro tempo: risalì in macchina e partì a tutta velocità verso l’ospedale.


Quando arrivò nel parcheggio, si accorse che c’era qualcosa di strano.


Troppo vuoto.


Certo, era notte fonda, ma un ospedale non dorme mai. Eppure, nel parcheggio c’erano pochissime macchine, le luci erano fioche, e tutto sembrava… immobile.


Uscì dall’auto e si avviò verso l’ingresso principale, stringendosi il cappotto addosso. L’aria era fredda, il vento portava con sé un odore di terra bagnata e asfalto.


Spinse la porta dell’ospedale.


«Salve? C'è qualcuno?» chiese, la voce appena più alta di un sussurro.


Silenzio.


Un silenzio innaturale, quasi soffocante.


Fece qualche passo all’interno, osservando l’ambiente intorno a sé. Il bancone della reception era vuoto, nessuna infermiera alla scrivania, nessun medico di turno. Solo una luce d’emergenza che illuminava appena il corridoio.


Malik si avvicinò lentamente al bancone e suonò il campanello.


Drin. Drin.


Aspettò.


Nulla.


Riprovò.


Drin. Drin.


Ancora silenzio.


Un brivido gli attraversò la schiena. Dov’erano tutti?


Non poteva perdere altro tempo. Se non c’era nessuno alla reception, avrebbe trovato da solo la stanza di Anna.


Girò intorno al bancone, trovando una porta socchiusa con la targhetta “SEGRETERIA”. Spinse lentamente la porta ed entrò.


Dentro, una piccola scrivania con un computer spento, scaffali pieni di cartelle e, su una mensola più bassa, il registro dei pazienti ricoverati.


Eccolo.


Sfogliò le pagine con dita tremanti, finché non trovò il nome che cercava.


Anna Malik – Stanza 403 – Quinto piano.


L’adrenalina gli diede una spinta. Uscì dalla segreteria e si avviò verso le scale, il cuore che batteva sempre più forte. Ad ogni piano che saliva, la tensione cresceva. Nessun rumore di passi, nessun suono di macchinari. Solo un silenzio tombale, rotto di tanto in tanto dal rimbombo lontano di un tuono.


Arrivato al quinto piano, il corridoio si presentò davanti a lui come un tunnel buio e inquietante.


Le luci d’emergenza tremolavano. L’aria era gelida.


La stanza 403 era in fondo, una porta anonima come tutte le altre, tranne per il fatto che sembrava attenderlo, sola, nell’oscurità.


Malik avanzò con cautela. Ogni passo rimbombava nel silenzio.


Una volta davanti alla porta, alzò la mano e bussò.


Toc. Toc.


«Anna?» sussurrò.


Silenzio.


Con il respiro corto, abbassò lentamente la maniglia e spinse la porta.


La stanza era immersa in una penombra fredda. Anna era lì, distesa sul lettino d’ospedale, il viso pallido, quasi trasparente sotto la luce fioca della macchina del cuore.


Malik si avvicinò piano, cercando di non far rumore. Il suo respiro caldo condensava nell’aria gelida della stanza.


Poi, un rumore lontano.


Un suono ovattato.


Un tonfo.


Malik si bloccò.


Il rumore proveniva dal corridoio.


Si voltò di scatto.


Nulla.


Solo il buio.


Eppure… qualcosa non andava.


Si fece avanti di qualche passo, oltre la porta della stanza, e guardò il lungo corridoio deserto.


Il fiato gli si fermò in gola.


Un’ombra.


Lontana, immobile.


Ma non sembrava normale.


Le braccia erano troppo lunghe. Il corpo piegato in avanti in modo innaturale.


Il sangue di Malik si gelò.


Un lampo squarciò il cielo.


E per un brevissimo istante, la luce illuminò il corridoio.


Quell’ombra…


Non era più in fondo al corridoio.


Era molto più vicina.


CAPITOLO 6:


Malik si fece coraggio. Serrò i pugni e gridò nel buio:


«Chi sei?! Cosa vuoi da noi?! Perché ci perseguiti?!»


La sua voce rimbombò lungo il corridoio come un'eco lontana, svanendo nel nulla, inghiottita dal suono ossessivo della pioggia che martellava il tetto dell’ospedale.


Nessuna risposta. Nessun passo. Nessun sussurro.


Solo quel silenzio insostenibile, gravido di presagi.


Si voltò di scatto verso la stanza di Anna. Lei era ancora lì, immobile, fragile come porcellana, il volto era sfiorato dalla luce intermittente del monitor cardiaco.


Tornò poi a guardare il corridoio.


Vuoto.


La sagoma nera era sparita.


Malik rimase paralizzato, gli occhi sbarrati, il respiro corto. Era possibile che si fosse solo immaginato tutto?

Oppure... stava davvero impazzendo?


Scosse la testa, entrò di nuovo nella stanza e si avvicinò al comodino accanto al letto. Lì, sotto la finestra, vide il telefono. Lo afferrò, ma fu allora che lo notò:


la finestra era spalancata.


Il vento frustava le tende, facendole ondeggiare come spettri. La pioggia entrava impietosa, bagnando il pavimento e il davanzale. Malik si avvicinò lentamente, affacciandosi nel vuoto della notte.


E fu lì che lo vide.


In fondo al parcheggio, quella stessa sagoma nera.

Era seduta al posto di guida della sua auto. La pioggia oscurava la visuale, ma si intravedevano i suoi movimenti. Frugava tra i cavi sotto il cruscotto.


Malik urlò, sporgendosi dalla finestra:


«Ehi tu! Fermati! Ehi! TI HO DETTO DI FERMARTI!»


La figura si fermò. Per un attimo, restò completamente immobile. Il cuore di Malik smise di battere per qualche secondo. Poi, all’improvviso, i fari dell’auto si accesero accecanti, e in quell’istante... la sagoma svanì.


Non c’era più.


Malik si tirò indietro con un tonfo sordo. Prese il telefono e compose freneticamente il numero dello sceriffo.


«Pronto, mi sentite?!»


Una voce rauca rispose:


«Sceriffo di Springfield. Dica.»


«Devo parlare con qualcuno. Subito. Sono all’ospedale.»


«Cosa succede?»


«Venite... e basta. Vi prego. Venite ORA.»


Click.


La linea cadde.


Tutto intorno, buio.


Un blackout improvviso aveva inghiottito l’intera struttura. Le luci d’emergenza tremolavano. L’oscurità dominava.


Malik accese la torcia del telefono. Una debole lama di luce squarciò l’oscurità.


Scese le scale lentamente, con passo prudente, ogni gradino scricchiolava sotto i suoi piedi. Il corridoio dell’atrio era rischiarato appena.


Ed è lì che lo vide.


Un uomo anziano seduto su una poltroncina all’angolo dell’ingresso.


Aveva una lunga barba bianca, capelli ricci raccolti in un codino alto. Rideva. Parlava da solo. In mano, stringeva un foglio accartocciato, bruciacchiato sui bordi, come fosse stato appena estratto da un camino.


Malik si avvicinò, la luce tremolante della torcia illuminava il volto rugoso del vecchio.


«Salve...» sussurrò Malik, pieno di esitazione.


Il vecchio alzò lo sguardo lentamente, un sorriso sottile gli curvò le labbra.


«Ciao... dimmi tutto...» disse con voce graffiata, inquietantemente serena.


«Sa... sa se c’è qualcuno? Dov’è finito tutto il personale? L’ospedale è... vuoto.»


Il vecchio annuì, come se fosse la cosa più naturale del mondo.


«Oh sì... è tutto molto strano, vero? Ma non ti preoccupare. C’è ancora qualcuno qui. Un tipo simpatico... tutto nero... senza volto. Lo conosci?»


Il sangue di Malik si ghiacciò.


«Come ha detto? Un uomo... tutto nero?»


«Sì, sì... molto educato. Non parlava, ma... ci siamo capiti. Cercava un certo... Brian Malik, mi pare. Non è buffo? Proprio come te.»


Malik indietreggiò di un passo. Il cuore gli martellava nel petto.


«Lei... sta scherzando, vero?»


Il vecchio scosse la testa, e con naturalezza gli porse il foglio:


«Ah, quasi dimenticavo. Potresti portarlo in segreteria per me? È importante. Grazie caro.»


Malik afferrò il foglio con mani tremanti.


«Va bene... vado. Buona serata...»


«Ciao ciao, Brian...» disse il vecchio, sottolineando il nome con una voce melliflua.


Malik si incamminò per i corridoi deserti, stringendo il foglio tra le mani. Ad ogni passo, sentiva il proprio nome sussurrato nel buio.


Le ombre sembravano seguirlo, le luci d’emergenza si spegnevano una ad una al suo passaggio.


Arrivato in segreteria, non c’era nessuno. Solo un silenzio irreale e il rumore della pioggia sul tetto.


Guardò il foglio. Lo teneva ancora chiuso tra le mani, umido e spiegazzato. Il cuore gli diceva di non aprirlo, ma la mente... era troppo curiosa.


Con un respiro profondo, Malik aprì lentamente quel pezzo di carta, le dita tremanti.


Il foglio si aprì con un fruscio secco.


CAPITOLO 7:


Malik restò immobile. Il fiato gli si fermò in gola, il sangue sembrava essersi ghiacciato nelle vene, e gli occhi, sbarrati per l’orrore, non riuscivano più a chiudersi. Il cuore batteva all’impazzata, come se volesse sfuggire al petto, e le sue mani iniziarono a tremare, a sudare, a stringere con forza il foglio che aveva appena letto.

Il panico lo assalì come una marea nera, travolgente.


Iniziò ad ansimare.

Iniziò a tremare.

Iniziò a urlare, a imprecare, cercando di scacciare il terrore che gli stringeva la gola come una morsa invisibile.


Sul foglio, con una calligrafia distorta e graffiata, c’era scritto:


> “L’uomo senza volto a voi infesterà,

a voi perseguiterà,

a voi ucciderà,

a voi tormenterà.

Anche nelle pene dell’inferno,

di me non ti libererai.

La testa ti monterai,

la tua testa impazzirà.”


Malik fece un passo indietro. La voce scritta sembrava aver preso vita, risuonando nella sua mente come un’eco spettrale. Il passato era tornato.

Quella figura nera, quella sagoma senza volto che lo perseguitava da anni... era la stessa.

Lo stesso mostro, lo stesso incubo.

L’uomo senza volto era tornato.


Fu in quel momento che vide i lampeggianti blu e rossi dei soccorsi squarciare l’oscurità notturna. Il rombo dei motori della polizia, il suono delle radio, tutto sembrava irreale. Malik corse fuori dall’ospedale, completamente fradicio di pioggia, in direzione delle auto dello sceriffo.


“Che succede?” domandò lo sceriffo Carter, la voce tagliente e preoccupata.


“C’è… c’è un uomo! Là dentro!” gridò Malik, ansimando, agitando le braccia, “Un uomo nero, senza volto, mi stava seguendo! Stava anche manomettendo la mia auto! Vi prego, fate qualcosa!”


Lo sceriffo lo guardò fisso, poi annuì. “Va bene. Controlleremo tutta la struttura e i dintorni. Stia calmo.”


Passarono ore. Le ricerche furono lunghe e meticolose. Ma niente.

All’alba, quando la pioggia iniziava a placarsi e il cielo si tingeva di un grigio pallido, Carter tornò da Malik con uno sguardo serio e stanco.


“Mi dispiace,” disse, “non abbiamo trovato nulla. Né nell’ospedale, né nel bosco attorno.”


“Ma è impossibile!” urlò Malik, ormai in preda al panico. “Era qui! Era qui dentro!”


“Mi dispiace davvero. Per ora non possiamo fare altro. Torni a casa, cerchi di riposare.”


Malik non rispose. Rimase in silenzio mentre le auto dei soccorsi si allontanavano. Poi, lentamente, prese in mano il telefono e cercò tra i contatti.

Scorse nomi che non sentiva da anni, ricordi di un passato che pensava di aver sepolto.

Finché il dito si fermò su un nome: Steven Zuck.


“Eccolo…” sussurrò. “Lui si ricorderà…”


Premette il tasto di chiamata. Dopo alcuni squilli, una voce familiare rispose: “Pronto, chi parla?”


“Ciao, Stev… sono io, Malik.”


“Malik?… Ma sei tu davvero?” La voce di Steven divenne più attenta. “Da quanto tempo! Come stai?”


“Male. Molto male. Ti devo parlare… è urgente.”


“Dimmi tutto.”


“È ritornato.”


Ci fu un silenzio improvviso. Poi Steven, con voce spezzata: “Ti prego… dimmi che stai scherzando.”


“Vorrei poterlo dire… ma è vero. L’uomo senza volto è tornato. Ha quasi ucciso mia moglie. Io ora sono in ospedale.”


“Merda… arrivo subito. Ma… stai attento, ti prego.”


Quando Steven arrivò nel parcheggio dell’ospedale, Malik era ancora seduto nella sua auto. Bussò al finestrino.


“Ehi, Malik, mi apri? Fa un freddo cane qui fuori.”


Malik gli aprì e Steven salì. Era come vederlo tornare indietro nel tempo: il suo vecchio collega, il compagno di indagini in quella maledetta notte di tanti anni fa.


“Come sta tua moglie?” chiese Steven, preoccupato.


“È viva… per ora. Ma io… io non riesco a smettere di pensare a lui.”


Steven annuì. “E lui? Dov'è?”


“È sparito quando sono arrivati i soccorsi"


Un lungo silenzio, poi Steven si voltò verso Malik.


“Come facesti a farlo sparire, all’epoca?”


“Con un rituale… o almeno, così pensavamo.”


“E se provassimo di nuovo? Magari… c’è qualcosa di più efficace. Qualcosa di definitivo.”


Malik si girò, lo fissò negli occhi. “Allora andiamo. Alla vecchia caserma. Forse lì troveremo le risposte.”


La caserma dello sceriffo di Springfield era un relitto del passato. Abbandonata da anni, pareva sul punto di crollare su se stessa. Le finestre erano rotte, l’edera copriva i muri e la ruggine divorava i cancelli.

La porta principale era sbarrata, così i due entrarono dalla porta sul retro, spaccandola con una spallata decisa.


Dentro, il silenzio era assordante. La polvere aleggiava ovunque, ogni oggetto era esattamente dove l’avevano lasciato, come se il tempo si fosse fermato.

La libreria era lì, minacciosa e immobile.


“Dobbiamo cercare il libro del rituale,” disse Steven, puntando la torcia verso gli scaffali.


Dopo diversi minuti, fu Malik a trovarlo. “Eccolo.”


Steven lo prese e cominciò a sfogliarlo, le mani tremanti.

Poi, tra le ultime pagine, una busta sigillata. La aprì con cautela. Dentro, una lettera scritta da una mano antica.


> “P.S. Il rituale non sempre funziona.

Alla fine del libro troverete una pagina con una macchia nera: si dice sia il sangue dell’uomo senza volto.

Eseguite il nuovo rituale, poi strappate la pagina e bruciate il libro, la pagina, e il luogo dove avete compiuto il rito.


Thomas Grey.”


Sotto, il nuovo rituale:


> “Tu figura spettrale senza anima né volto,

esci fuori e fatti vedere,

che noi paura di te non ne abbiamo.

Piangi e ascolta,

Ambite, umbrae noctis,

Luce Dei fugatae.”


La pagina era lì. Macchiata, annerita.

Era il momento.


Accesero delle candele bianche, posarono il libro aperto sulla scrivania e iniziarono a recitare la formula.

Il vento si levò fuori, la pioggia si fece tamburo. Le luci della caserma si accesero da sole, l’allarme scattò, le pagine del libro iniziarono a girare da sole, le fiamme delle candele a danzare.


Non si fermarono.

Recitarono con forza.

Poi Malik strappò la pagina e Steven le diede fuoco, assieme al libro.


Uscirono di corsa. Malik versò benzina sull’ingresso e diede fuoco anche alla caserma.

Il fuoco divorò tutto.

Là, sotto la pioggia battente, i due guardarono in silenzio il rogo che si alzava al cielo.


Si voltarono.

Si sorrisero.

Si abbracciarono.


Ed è così, che il male, l'uomo senza volto, l'uomo nero o come lo volete chiamare, se ne andò, per sempre, portato via dal fumo delle fiamme che ardevano.


Fine.


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